Indefesso pedone e ciclista, Bradbury ha ritratto come pochi l'angoscia del declino del genere umano. Ulteriore testimonianza di questo sguardo ubiquo e veritiero, pur nella sua paradossalità, è il racconto The Pedestrian, pubblicato nel 1951. Il protagonista vive una storia di ordinaria allucinazione in una realtà centrata televisivamente, nell'anno 2053. Le strade sono in decadenza e le persone non escono più di casa. Bradbury ha solo sbagliato la data. Buona lettura.
IL PEDONE
di Ray Bradbury
Entrare in quel silenzio che era la città alle otto di
un'opaca sera di novembre, sentire sotto le suole quei riquadri di cemento
raggrinzito, calpestare l'erba cresciuta fra gli interstizi e aprirsi un varco,
con le mani in tasca, in mezzo ai silenzi: era questo che il signor Leonard
Mead amava fare sopra ogni altra cosa. Si fermava al primo crocicchio e
scrutava i lunari corridoi dei marciapiedi nelle quattro direzioni, come se
sceglierne una piuttosto che un'altra facesse qualche differenza. Poi, presa la
decisione e stabilito l'itinerario, tornava ad avviarsi, spingendo davanti a
sé, come fumo di sigaro, volute d'aria gelida.
A volte continuava a camminare per ore e ore, per miglia e
miglia, e tornava a casa dopo mezzanotte. E lungo tutta la strada, lungo case e
villini dalle finestre buie, era come camminare in un cimitero: con fiochi
barlumi di lucciole che baluginavano di quando in quando dietro un vetro; con
improvvisi fantasmi grigi che sembravano talvolta manifestarsi sui muri interni
delle stanze, là dove una tenda non era stata tirata contro la notte; o con
sussurri e mormorii che talvolta giungevano fino a lui, là dove una finestra,
in uno dei tanti funerei edifici, era rimasta aperta.
Il signor Leonard Mead si fermava, piegava il capo,
ascoltava, guardava, e si rimetteva in cammino. Il suo passo, sulle lastre di
cemento incrinate e sconnesse, era perfettamente silenzioso; perché,
saggiamente, già da molto tempo s'era deciso a portare scarpe con la suola di
gomma, per le sue passeggiate notturne: altrimenti i cani avrebbero abbaiato
parallelamente a tutto il suo viaggio, e luci si sarebbero accese di colpo,
facce sarebbero apparse alle finestre, finché tutta la strada si sarebbe
ridestata al passaggio di una figura solitaria, lui, in una sera di novembre.
Quella sera Leonard Mead si avviò verso la parte occidentale
della città, verso il mare invisibile. C'era nell'aria il presagio cristallino
del gelo; pungeva la pelle e, dentro, incendiava i polmoni come un albero di
Natale; a ogni respiro, si sentiva la luce fredda accendersi e spegnersi, tutti
i rami carichi d'invisibile neve. Rallegrato dai tonfi lievi delle scarpe sulle
foglie d'autunno, Leonard Mead prese a fischiettare tra i denti un motivo
sommesso, liscio, curvandosi ogni tanto a raccogliere una foglia, esaminando,
ripresa la marcia, la sua trama scheletrica alla luce degli infrequenti
lampioni, fiutandone l'odore rugginoso.
— Vi saluto, — sussurrava davanti a ogni casa, a destra e a
sinistra. — Che c'è di bello stasera sul Quarto Canale, sul Settimo Canale, sul
Nono Canale? Dove galoppano i cowboys? È forse la cavalleria degli Stati Uniti
che viene alla riscossa, quella nube di polvere sull'altra collina?
La via era silenziosa e lunga e deserta, la sua ombra era
l'unica cosa che si muovesse, come l'ombra di un falco sulla pianura. Se
chiudeva gli occhi tenendosi perfettamente immobile, impietrito, riusciva a
immaginarsi al centro di un'immensa distesa piatta, un arido deserto senza
vento e senza una casa nel raggio di mille miglia, con l'unica compagnia di
tortuosi fiumi disseccati: le strade.
— Che programma c'è a quest'ora? — chiese alle case,
guardando l'orologio. — Le otto e mezzo. È l'ora di mezza dozzina di delitti
assortiti? O dei quiz? O di un varietà musicale? O di una scenetta comica?
Era un mormorio di risate quello che usciva da una delle
casette bianche di luna? Esitò un istante, ma poi riprese il cammino quando
vide che nulla accadeva. Inciampò in un tratto di marciapiedi particolarmente
sconnesso. Il cemento spariva, invaso dai fiori e dall'erba. In dieci anni di
passeggiate, di giorno e di notte, per migliaia di chilometri, non gli era mai
capitato di incontrare un altro essere umano che camminasse come lui per la
città; nemmeno uno.
Giunse a un incrocio a quadrifoglio, imponente e silenzioso,
dove due grandi arterie tagliavano la città. Durante il giorno un vortice
assordante di veicoli lo trasformava in un immenso insetto frenetico, velato
dai vapori degli scarichi, continuamente dissanguato, dilatato, e poi di nuovo
congestionato, soffocato, dall'incessante fluire e defluire del traffico. Ma
ora queste grandi strade erano anch'esse corsi d'acqua inariditi, null'altro
che asfalto e pietra e chiaro di luna.
Imboccò una via laterale per tornare verso casa. Era ormai a
un isolato dalla sua porta quando un'automobile solitaria girò di colpo
l'angolo e lo centrò con un violento cono di luce. Al primo momento egli rimase
immobile; poi, non diversamente da una falena accecata dal bagliore, si sentì
attratto verso la fonte.
Una voce metallica suonò nel silenzio:
— Si fermi. Resti dov'è! Non si muova!
Si fermò.
— Mani in alto!
— Ma... — disse.
— Mani in alto! O spariamo!
La polizia, naturalmente. Ma era un caso rarissimo, quasi
incredibile: in una città di 3 milioni di abitanti, era rimasta, se ricordava
bene, un'unica auto della polizia. Già da un anno ormai, dal 2052, l'anno delle
elezioni, le auto in dotazione della polizia erano state ridotte da tre a una
sola. La delinquenza era quasi completamente scomparsa; non c'era più bisogno
della polizia, quest'ultima auto solitaria che errava senza posa per le vie
deserte era più che sufficiente.
— Nome e cognome, — disse l'auto della polizia in un ronzio
metallico.
Non gli riuscì di vedere gli uomini dentro la macchina, accecato
com'era dalla luce bianca.
— Leonard Mead, - rispose.
— Parli più forte!
— Leonard Mead!
— Impiego o occupazione?
— Diciamo, scrittore.
— Senza occupazione, — disse l'auto della polizia, come
parlando tra sé. Il fascio di luce lo teneva inchiodato come un esemplare da
museo, un insetto col corpo trapassato da uno spillo.
— Non avete torto, — disse Leonard Mead. Da anni aveva
smesso di scrivere: Libri e riviste non si vendevano più. Tutto - pensò,
tornando alle sue meditazioni d'ogni sera, - tutto ormai si svolgeva di sera,
dentro quei sepolcri di case appena illuminati dal tenue riflesso dello schermo
televisivo, in cui gli uomini, simili a defunti, sedevano davanti alle luci
grigie o multicolori che sfioravano i loro volti ma senza mai toccarli dentro.
— Senza occupazione, — disse la voce di fonografo,
sibilando.
— Perché è uscito di casa?
— Per camminare, — disse Leonard Mead.
— Camminare!
— Solo camminare, — disse con naturalezza, ma mentre un gelo
gli saliva lungo la schiena.
— Camminare, solo camminare, camminare?
— Sissignore.
— Camminare dove? A che scopo?
— Camminare per prendere aria. Camminare per vedere.
— Il suo indirizzo, prego?
— Saint James Street, numero 11.
— E lei ha dell'aria, in casa sua, signor Mead? Ha un
condizionat-re d'aria?
— Sì.
— E ha uno schermo televisivo in casa? Uno schermo da
guardare?
— No.
— No? — Vi fu un silenzio crepitante che era di per sé
un'accusa.
— Lei è sposato, signor Mead?
— No.
— Celibe, — disse la voce della polizia dietro il raggio
accecante.
La luna era alta e chiara fra le stelle e le case grigie e
silenziose.
— Nessuno mi ha voluto, — disse Leonard Mead con un sorriso.
— Non parli se non è interrogato.
Leonard Mead rimase in attesa nella notte fredda.
— E uscito da solo, per camminare, signor Mead?
— Sì.
— Ma non ci ha detto per quale scopo.
— Ve l'ho detto: per prendere aria, per vedere, e per il
piacere di camminare.
— Lo fa spesso?
— L'ho fatto per anni, tutte le sere.
L'auto della polizia era acquattata al centro della strada
con la sua gola radiofonica che ronzava fiocamente.
— Bene, signor Mead, — disse.
— Non c'è altro? — chiese educatamente Mead.
— No, — disse la voce. — È tutto —. Vi fu uno scatto
metallico e come un lungo sospiro.
Lo sportello posteriore della macchina della polizia si aprì
lentamente. — Salga.
— Un momento, io non ho fatto niente!
— Salga.
— Io protesto. Non avete il diritto di...
— Signor Mead.
Leonard Mead avanzò rassegnato, vacillando appena, ma con le
spalle improvvisamente curve. Mentre passava davanti al parabrezza guardò
nell'interno dell'auto. Come si aspettava, non c'era nessuno seduto sul sedile
anteriore; non c'era nessuno nella macchina.
— Salga.
Posò una mano sullo sportello e scrutò nel sedile
posteriore, che era una piccola cella, una piccola prigione nera, con le
sbarre. Odorava di acciaio. Odorava di pungente antisettico. Odorava di gelida
pulizia, di duro metallo. Non c'era nulla di soffice là dentro.
— Se lei fosse sposato, e sua moglie potesse testimoniare, —
disse la voce di ferro. — Ma così come stanno le cose...
— Dove mi portate?
La macchina esitò, o piuttosto emise un leggero, brevissimo
ronzio, e uno scatto, come se un braccio meccanico, nel suo interno, chissà
dove, facesse scorrere una serie di schede sotto un occhio elettrico. — Al
Centro di Ricerca Psichiatrica sulle Tendenze Regressive.
Leonard Mead salì. Lo sportello si richiuse con un tonfo
morbido. L'auto scivolò via tra i viali notturni, preceduta dai suoi fari
fiochi.
Un istante dopo passarono davanti a una certa casa, in una
certa via, l'unica casa in una città di case buie, che avesse tutte le sue luci
accese, ogni finestra viva e rutilante, ogni rettangolo caldo e chiaro nel buio
di novembre.
— Quella è casa mia, — disse Leonard Mead.
Nessuno gli rispose.
L'auto continuò la corsa lungo i fiumi inariditi,
lasciandosi dietro strade deserte e deserti marciapiedi, dove non un suono, non
un movimento turbavano più la fredda notte d'autunno.
(Da Il secondo libro di
fantascienza, a cura di S. Solmi-C. Fruttero, trad. it di C. Fruttero, Einaudi, Torino, 1961).
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