TRIVELLE
FUORILEGGE: UN RAPPORTO DI GREENPEACE SVELA L’INQUINAMENTO DELLE PIATTAFORME
ITALIANE
ROMA, 03.03.16 – Sostanze chimiche inquinanti e pericolose, con un forte impatto sull’ambiente e sugli esseri viventi, si ritrovano abitualmente nei sedimenti e nelle cozze che vivono in prossimità di piattaforme offshore presenti in Adriatico, spesso in concentrazioni che eccedono i parametri di legge. Lo rivela il rapporto “Trivelle fuorilegge” pubblicato oggi da Greenpeace in cui, per la prima volta, vengono resi pubblici i dati ministeriali relativi all’inquinamento generato da oltre trenta trivelle operanti nei nostri mari.
I dati elaborati da
Greenpeace mostrano una contaminazione ben oltre i limiti previsti dalla legge
per almeno una sostanza chimica pericolosa nei tre quarti dei sedimenti marini
vicini alle piattaforme (76% nel 2012, 73,5% nel 2013 e 79% nel 2014). Ancor più:
i parametri ambientali sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% dei
campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Anche nelle cozze
la presenza di sostanze inquinanti ha mostrato evidenti criticità.
«Il quadro che
emerge è di una contaminazione grave e diffusa», afferma Giuseppe Ungherese,
responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace. «Laddove esistono dei limiti
fissati dalla legge, le trivelle assai spesso non li rispettano. Ci sono
contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli
pesanti, molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena
alimentare fino a raggiungere gli esseri umani. Nei pressi delle piattaforme
monitorate si trovano abitualmente sostanze associate a numerose patologie
gravi, tra cui il cancro. La situazione si ripete di anno in anno ma ciò
nonostante non risulta che siano state ritirate licenze, revocate concessioni o
che il Ministero abbia preso altre iniziative per tutelare i nostri mari»,
conclude Ungherese.
Lo
scorso luglio
Greenpeace aveva chiesto al Ministero dell’Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare, tramite istanza pubblica di accesso
agli atti, di ottenere i dati di monitoraggio delle piattaforme presenti
nei mari italiani. Il Ministero aveva risposto fornendo soltanto i dati di
monitoraggio di 34 impianti, relativi agli anni 2012-2014, dislocati davanti
alle coste di Emilia Romagna, Marche e Abruzzo. Delle
altre 100 e più piattaforme operanti nei nostri mari, Greenpeace non ha
ricevuto alcun dato: o il Ministero non dispone di informazioni in merito (e
dunque questi impianti operano senza piani di monitoraggio), oppure lo stesso
Ministero ha deciso di non consegnare a Greenpeace tutta la documentazione in
suo possesso.
Alla scarsa trasparenza
del Ministero e al quadro ambientale critico si aggiunge il fatto che i
monitoraggi sono stati eseguiti da ISPRA (l’Istituto Superiore per la
Protezione e la Ricerca Ambientale, un istituto di ricerca pubblico sottoposto
alla vigilanza del Ministero dell’Ambiente) su committenza di ENI, proprietaria
delle piattaforme oggetto di indagine. In pratica, l’organo istituzionale
(ISPRA) chiamato a valutare i risultati del monitoraggio sul mare che circonda
le piattaforme offshore – e di conseguenza verificare la non sussistenza di
pericoli per l’ambiente e gli ecosistemi marini – opera su committenza della
società che possiede le piattaforme oggetto d’indagine (ENI), cosicché il
controllore è a libro paga del controllato.
«Con questo
rapporto dimostriamo chiaramente che chi estrae idrocarburi nei nostri mari
inquina, e lo fa oltre i limiti imposti dalla legge senza apparentemente
incorrere in sanzioni o in divieti», dichiara Andrea Boraschi, responsabile
della campagna Energia e Clima di Greenpeace. «Quel che a nessun cittadino
sarebbe concesso, è concesso invece ai petrolieri, il cui operato è fuori
controllo, nascosto all’opinione pubblica e gestito in maniera opaca. Sono
motivi più che sufficienti per spingere gli italiani a partecipare al prossimo
referendum sulle trivelle del 17 aprile, e a votare Sì per fermare chi svende e
deturpa l’Italia».
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